Ho in mente solo un nome

È la mia ossessione, e me la ritrovo ovunque. Per strada è nel volto di ogni donna che incrocia il mio sguardo – mi sento riconosciuto e apro la bocca per parlare, ma non è lei, no; alla televisione è la diva, la soubrette, la cantante, cambio canale eppure è ancora lì, a ricordarmi cosa ho perso; nei sogni è la mia amante, la donna di sempre, mio sollazzo e mia sventura, perché quando l’avevo me la godevo come una troia, e ora la troia sono io, che elemosino il ricordo di lei da ogni donna che incontro.

Solo quando la città finisce, quando anche il rumore di fondo degli amici che non sanno cosa dire in questi casi, quando anche quello finisce, quando il sonno è finito e un’insonnia costante ha preso il controllo del tuo bioritmo, e ti rivolgi alla distanza, solo là può funzionare. Solo nella campagna nebbiosa, che quando esce uno sporadico sole è ancora più fredda, fra gli aironi che planano, il falchetto che scruta l’erba alta, il tuffo nel canale del castorino impaurito da tutto meno che dalle automobili le sue spose assassine – lì ci sono i vecchi casolari, le cascine, coi muri sbrecciati, i piccioni morti, le ragnatele, l’antico vociare di animali e di vite umane che sono andate nel tempo.

E ci sono io, che passeggio e scatto fotografie, e so che lei è lì, come un fantasma che mi segue, mi tallona, aspetta il momento giusto per farmi collassare il cuore.

Non accade.

Le rovine mi sollevano lo spirito, nella polvere mi sento polvere anch’io, mi muovo leggero fra calcinacci farinosi, tegole verdi di muschio e grondaie arrugginite, e ho l’impressione sempre più forte che il mio fantasma – ormai non è più lei, non può essere lei – acquisti maggiore consistenza. Non vuole aggredirmi, nemmeno ricoprirmi di amaro rimpianto, non è un fantasma crudele, sembra di più una compagna birbante, che ama saltellarmi dietro senza però essere invadente. Se mi soffermo a esaminare una carcassa animale o a raccogliere gusci di lumache, o a scattare una foto, s’arresta, per non farmi perdere la concentrazione, per non distogliermi da quelle poche cose che ormai mi danno calma.

Mi capita di addormentarmi su un grosso ciocco di legno, nei cortili delle dimore lasciate, oppure nei cuscini molli di divani pieni di ragni e pesciolini d’argento, dentro le rovine. E sogno. Il mio fantasma, quello buono, che vuole proteggermi, allunga la sua mano per allontanare da me il ricordo di lei che si insinua come un incubo di Füssli, lo prende, vedo la mia vecchia amante che cerca di scapparle dalle dita, che si dimena, poi il mio fantasma gentile diventa Saturno che divora suo figlio (adesso è Goya a ispirare il mio sogno) e se lo ficca in bocca – bon appetit.

In certi casi, appena prima di aprire gli occhi, ho l’impressione che il fantasma di lei che non è lei sarà là, a fissarmi con un sorriso malizioso e invitante. Mi rendo conto che è la disperazione a parlare, il bisogno di rivedere momenti di una vita passata cristallizzati in un viso ed un corpo di donna, per dissetarsi di quell’emozione che non si riesce, non riesco più a vivere.

Ho detto che scatto fotografie? Sì, l’ho detto. L’unica alla quale non ho mai scattato foto era l’amante perduta, per quella pudica sua voglia di restare impressa solo negli occhi, nell’olfatto, sulla pelle. Meglio così, l’avrei ricattata, obbligata a tornare da me, minacciando di spargere i suoi paesaggi nudi per il mondo.

Così, da solo, nelle cascine pericolanti, catturo immagini del mondo che muore. So che un pezzo di intonaco lì, domani sarà sul pavimento. Che una cartaccia sbiadita, l’inchiostro a formare una serie irregolare di puntini che una volta erano frasi di senso compiuto, sarà volata via, o si sarà sbriciolata del tutto. Che il topolino verrà ucciso dal gatto selvatico. Che il soffione verrà soffiato. Che arriva il tramonto e porta le ombre lunghe.

Poi, quando sto per cedere a un pericoloso colpo di sonno, sento che è l’ora di un ultimo scatto. Osservo a lungo la parete di fronte a me, percorsa da crepe irregolari, animata da antichi ghirigori che si muovono con il muoversi del tempo. Stringo gli occhi, li riapro. Mi aspetto qualcosa ma non so cosa. Metto a fuoco la parete, poi decido per una via di mezzo, qualcosa che sta a metà fra me e la parete stessa, quella cosa così difficile da fotografare che qualcuno vi direbbe essere il nulla, ed ecco che l’indice parte. Mi sono mosso. Un’altra. Ho sonno, ma non posso fermarmi, sta per succedere qualcosa, lo so. Il mio fantasma da un po’ non mi segue, è sparito, forse mi ha lasciato? Ancora uno scatto, e poi un altro. Dai contorni esce una figura.

Abbasso la macchina, guardo davanti a me. Lei è lì, che mi guarda e mi sorride. Vorrei tenderle la mano, toccarla, ma rovinerei questo momento sensuale, assurdo e impossibile, in cui devo ancora decidere se sto dormendo, se sono morto, o se è lei che sogna me ed è viva.

Fuori, il sole tramonta sulla campagna padana.